28 giugno '01 Frankfurt - Delhi
L’aereo atterra all’aeroporto di Delhi alle 3 di notte. Ho solo il bagaglio a mano, ma dato che il mio coltellino mi è stato confiscato all’aeroporto di Francoforte, devo andare insieme agli altri passeggeri per ritirarlo.
Come temevo, il coltello non arriva, perciò riempio il modulo degli oggetti smarriti e vado via.Anche se è piena notte, appena esco dall’edificio dell’aeroporto sono assalita da dozzine di tassisti che si offrono di portarmi in un good hotel in città.
Dopo essermi guardata in giro, noto una piccola biglietteria – un bugigattolo – dove vendono biglietti prepagati. Ne compero uno per 230 rupie e salgo sul taxi più scassato che esista. L’uomo che siede accanto al conducente comincia a tempestarmi di domande che ascolterò altre centinaia di volte durante il mio soggiorno in India. “Da dove vieni?” “Perché viaggi da sola?” “Sei sposata?” “Hai figli?”.
Sono dispiaciuta per la perdita del mio coltello, che mi ha accompagnata per quindici anni nei miei viaggi intorno al mondo. Mi viene da pensare che simili misure di sicurezza siano un po’ stupide. Davvero pensano di fermare il terrorismo internazionale confiscando – e perdendo – un coltello utile solo a sbucciare la frutta? Quando poi ho scoperto che i viaggiatori di altri paesi europei erano autorizzati a tenere con sé i loro coltelli, mi sono arrabbiata davvero. E’ per via del fatto che i miei concittadini hanno fama di regolare le questioni private brandendo una lama che me lo hanno trattenuto?
Il mio primo ospite, il cui nome è stato nel frattempo cancellato dalla lista Servas perché si è comportato male con una viaggiatrice americana, è Balraj Taneja. Mi aspetta lungo la strada vicino alla sua abitazione. L’idea di stare a casa sua mi mette a disagio, ma ho ricevuto solo due giorni prima della partenza la lettera del Presidente Harivallabh Parikh, che mi avvertiva di non andare da lui. Io gli avevo scritto più di due mesi prima e la sua risposta è arrivata troppo tardi per fare dei cambiamenti.
Appena arrivo, mostro a Balraj la lettera in cui Harivallabh mi dice di evitare ogni contatto con lui. Appare sconcertato e si affretta a darmi la sua versione dei fatti. Questa discussione ha luogo nella sua camera da letto, l’unica ad avere l’aria condizionata. Però nelle ore precedenti c’è stata una lunga interruzione di corrente e la stanza non è molto fresca. Appena mi è possibile, mi ritiro nella camera che mi è stata destinata. È un forno, sudo abbondantemente e non chiudo occhio in tutta la notte.
La mattina dopo – domenica – telefono all’ex coordinatore, Babulal Sharma. Si è dimesso dalla carica alcuni mesi fa. “I soci Servas indiani sono così bizzarri!” dice. Non so nulla in proposito ma posso dire che, se non fosse stato per lui, non avrei avuto alcun aiuto a Delhi. L’unica cosa che il coordinatore in carica ha fatto per me è stata quella di darmi un numero di telefono che avevo già…
Babulal mi suggerisce di andare a casa sua, cosa che faccio immediatamente. Il suo alloggio è vicino alla sede del Gandhi Peace Foundation. I suoi figli sono in vacanza in montagna ma potrebbero ritornare questa notte. Spero di no perché, in questo caso, sarebbe la mia quinta notte consecutiva senza sonno. Invece, attorno all’una, quando finalmente riesco a prendere sonno suona il campanello. Dire che suona non è proprio azzeccato, dato che sembra di sentire il verso di un uccello. I saluti rumorosi sono seguiti dal racconto delle vacanze. Io resto nel mio letto cercando di recuperare il sonno perduto, ma inutilmente. Dopo circa un’ora spengono le luci e vanno a dormire. Dato che non riesco a riprendere sonno, decido di uscire sulla veranda per vedere se riesco a dormire almeno lì… Non ho fatto i conti però con le zanzare, che mi assalgono in massa. Lo spuntare dell’alba è una liberazione.
Il mio bisogno di dormire si è fatto urgente, perciò decido di spostarmi in una vicina guest house per le prossime due notti. Decido anche di partire da Delhi il più presto possibile. I miei giorni qui sono stati una specie di incubo: il caldo insopportabile, il traffico impazzito e il conseguente inquinamento, i bambini lustrascarpe che mi sporcano in continuazione i mocassini per poi poterli pulire dietro compenso, la lotta senza fine con gli autisti dei three wheelers per le loro tariffe esorbitanti, i mendicanti. Questa mattina mi si è avvicinata una giovane con in braccio il neonato più piccolo che avessi mai visto, non più lungo di 30 centimetri ! All’inizio, non volevo credere che fosse reale, ho dovuto toccarlo per credere ai miei occhi. Quando ho detto a B. quanto mi avesse colpita la vista di quel neonato, lui ha replicato semplicemente: “Forse che a Roma non è lo stesso?” Dunque, perché preoccuparsi?
Incidentalmente, la perdita del coltello è stata la causa di una delle incomprensioni con Balraj quando, il martedì, ho deciso di tornare in aeroporto (di nuovo in taxi, dopo aver atteso per un’ora il bus nella calura e nel fumo denso dei tubi di scappamento), i miei ospiti non capivano come mai mi creassi tanti problemi per un semplice coltello. E’ difficile da dire, ma non è solo per lo strumento in sé, ma per tutti i ricordi che sono legati ad esso…
Dopo un’ora di attesa alla stazione degli autobus, qualcuno mi dice che, a causa del monsone, il pullman è in ritardo e potrebbe non arrivare affatto. Aspetto ancora un po’ poi decido di telefonare a Babulal per dirgli quello che succede. Trovo un telefono nel retro del ristorante di fronte alla stazione. Devo provare più volte prima di avere la linea. Accanto a me, un cuoco sta preparando dei chapati mentre tossisce in continuazione. Nel gabinetto alla mia destra una donna accovacciata a terra sta lavando i piatti che sono disposti tutt’attorno al buco. Lascio un messaggio per Babulal alla segretaria della Fondazione, che parla solo hindi.
Alla stazione c’è un grosso gruppo di francesi, diretti a Jaipur. Sono preoccupati perché hanno sentito dire che non ci sono pullman in arrivo. L’unica soluzione sembra essere quella di affittare un bus privato. Mi chiedono se voglio andare con loro, partecipando alla spesa. Sono indecisa. Chiedo chi sia l’uomo che si è offerto di procurare il mezzo, vorrei parlargli di persona. Quando mi dicono che sarà di ritorno a minuti con il bus, dato che gli hanno già versato un deposito, i miei sospetti aumentano. Nessuno degli indiani che aspettano con noi ha fatto il minimo movimento di interesse per la cosa, per cui subodoro un raggiro alle spese degli ingenui turisti francesi…
La fila di sedie per i passeggeri in attesa di partire è posta appena fuori dei gabinetti, proprio dove la puzza è più forte e nessuna particella odorosa sfugge alle narici. Gli indiani non perdono occasione per mettere alla prova la pazienza e per far guadagnare a tutti un posto in paradiso… Accanto a me è seduta una donna impegnata a spulciare una delle figlie, mentre le altre aspettano il loro turno. A sinistra c’è un corvo con un enorme ratto morto nel becco. Lo deposita ai miei piedi e comincia a mangiucchiarne i testicoli.
Attorno all’una, arriva il pullman. Meno male che non ho accettato l’offerta dei turisti francesi. Infatti sono ancora in attesa dell’indiano a cui hanno versato il deposito. Hanno anche dato indietro il biglietto del pullman per ottenere il rimborso e usare i soldi per la caparra. Perciò non possono fare altro che aspettare e sperare…
Per fortuna arriva Babulal, a cui è stato dato il messaggio. Non so come avrei fatto altrimenti a fronteggiare l’assalto a colpi di spintoni violenti dei passeggeri urlanti, tutti uomini, che tentano di accaparrarsi un posto. Di solito c’è un bus ogni ora e il ritardo di cinque ore significa un accumulo di gente. C’è anche stata una sorta di appello, ma la pronuncia storpiata del mio nome lo ha reso incomprensibile.
La cosa che colpisce di più durante questo viaggio è la povertà spaventosa dei villaggi che attraversiamo. Il Rajastan è descritto nei libri come uno degli stati più prosperi, ma, a giudicare da quello che vedo, non è affatto così. A causa delle piogge torrenziali degli ultimi giorni, le persone e gli animali sprofondano nel fango fino al ginocchio. Ci sono ovunque montagne di rifiuti puzzolenti che attirano milioni di mosche. I bambini sono denutriti e affetti da ogni sorta di malattie. Il mio pensiero va ai miei allievi che in questo momento si stanno godendo le vacanze al mare o in montagna, viziati dai genitori…
Nell’attraversare uno di questi villaggi, vedo un cartello, sullo sfondo di misere capanne. Dice: “Buy M.V.A. books for compatitive (sic) exams”. Il viaggio dura sei ore e lungo la strada vedo degli incidenti spaventosi, che coinvolgono soprattutto dei camion. Più tardi nel mio viaggio, sulla strada per Surat, ne vedrò uno ogni cinque minuti e arriverò a una specie di assuefazione, ma adesso il vedere questi grossi automezzi distrutti, con la cabina che non esiste più, mi lascia sbigottita. A un certo punto vedo un uomo sdraiato a terra, a meno di due metri da un camion rovesciato. Penso che sia morto – forse era il conducente del camion – ma poi mi rendo conto che è semplicemente addormentato. Nemmeno il rumore dello scontro lo ha svegliato.
Alla stazione di Jaipur siamo assaliti da ogni parte dagli autisti di taxi, ricsciò e scooter. Vado all’hotel Mangal con il signor Sudhir, un compagno di viaggio che è qui per affari. E’ rappresentante di una ditta di marmi. E’ stato anche in Italia, a Carrara. Lui è di casa in questo hotel e mi fa anche avere uno sconto. La sua conoscenza mi è stata preziosa. Intanto, mi ha protetta dall’assalto aggressivo dei taxisti alla stazione. E poi, questo hotel è del tipo che scelgo sempre anch’io: molto essenziale, senza essere squallido o troppo sporco. Ci sono stanze con prezzi diversi.
A me viene assegnata una singola non molto pulita di categoria inferiore a quella del signor Sudhir, che ha anche un televisore a colori. A vedere la piccola folla di ragazzi presenti ad ogni piano mi chiedo che cosa ci stiano a fare. La sera, vado a cenare al Niro’s con il signor Sudhir. E’ un ottimo ristorante e io mi gusto una deliziosa cena vegetariana. Ho ordinato un thali, composto da riso bollito, chapati, verdure in umido, lenticchie in salsa speziata, sfoglie fritte e dolce di riso e latte. È tutto squisito!
5 luglio - I Khadi Centres
Da casa avevo scritto a diversi soci Servas di Jaipur senza ricevere alcuna risposta. Perciò adesso telefono loro per vedere se qualcuno mi può ospitare. Chiamo per primo Agraval, che mi dice di essere molto impegnato con l’incontro dei responsabili dei Kadi works. Tuttavia promette di venire all’hotel l’indomani mattina alle otto.
Il monsone imperversa e c’è fango dappertutto. Poiché non si può andare in giro, mi dirigo alla biblioteca pubblica, che un insegnante mi ha indicato.
L’edificio ha una bella architettura, ma è malandato. Un gruppo di una decina di ragazzi che stazionano nell’ingresso, mi indica una stanza che credo sia quella della lettura dei quotidiani. Da qui vengo indirizzata al piano superiore. Entro in una stanza polverosissima, dove c’è un vecchio che legge il giornale. C’è un altro uomo, dietro una scrivania, che dorme. Il vecchio ed io lo svegliamo con qualche difficoltà. Dopo avergli dato il tempo di superare lo choc del risveglio e del vedermi lì, gli spiego quello che voglio.
Mi indica l’archivio. Guardo su un tabellone appeso al muro il numero che corrisponde alla letteratura, il settore che mi interessa. Questo numero però non è riportato sui cassetti che contengono le schede, quindi serve a poco. Decido di aprirli a caso: nel secondo riconosco sulle card i nomi di alcuni scrittori, che, però, sono messi senza alcun criterio, né alfabetico né altro. Trovo comunque tre libri che mi interessano: Storia della letteratura indiana; Storia letteraria dell’India, Poetesse sanscrite. Nel frattempo, il bibliotecario mi porta i libri di Kalidasa (tre copie dello stesso libro!) che avevo chiesto prima, polverosi e lerci. Gli dò i numeri di riferimento di quattro libri copiati su pezzetti di carta presi dal cestino e che erano le ricevute buttate via. Lui va a cercarli. Torna dopo un quarto d’ora. Uno dei libri è sbagliato, perché non ha tenuto conto dello zero che era nel numero. L’altro è legato con una corda perché è talmente a pezzi che questo è l’unico modo per tenerlo insieme. Mentre lo slego il bibliotecario accende il ventilatore e nuvole di polvere si alzano dal libro, facendomi tossire. I due libri che più mi interessano non li ha trovati.
Il bibliotecario è tornato dai suoi amici a chiacchierare e a sorseggiare il tè. Mi sento un’intrusa per essere venuta ad interrompere il tran-tran giornaliero di queste persone, fatto di dormite, piacevoli chiacchierate, lettura del giornale e bevute di tè. E poi sono solo le 10 di mattina, diamine, come mi permetto di irrompere nel loro spazio a quest’ora mattutina… Mentre me ne sto andando li sento discutere animatamente e una volta di più ho l’impressione che, più che una biblioteca pubblica, questo sia un punto d’incontro di amici, ancora più prezioso nei giorni di pioggia.
6 luglio - All'osservatorio
Alle 8 arriva Agraval, su una jeep guidata dall’autista. Parliamo un po’, ma lui ha fretta e, dopo essersi fatto portare al luogo del suo incontro di lavoro, mi fa gentilmente accompagnare all’osservatorio di Jai Singh, dove vorrei passare la mattinata ad osservare e cercare di conoscere meglio gli strumenti astronomici. Ma piove a dirotto e devo abbreviare il tempo di visita.
All'ashram
Prendo un ricsciò per recarmi all’ashram dove vive Agraval, che mi ha invitata per pranzo.
L’edificio si trova a 12 chilometri da Jaipur e mi rendo subito conto che decidere di percorrerli su questo mezzo non è stata una buona idea. Procediamo dentro alle pozzanghere e ben presto sono completamente coperta di fango. Azzardo una piccola protesta, con il risultato che il ciclista svolta verso il centro della strada, dove in effetti non ci sono pozzanghere. Ci sono però le macchine e i camion, che ci sorpassano pericolosamente a destra e sinistra… Sono terrorizzata, un camion ci urta e per poco non fa ribaltare il ricsciò.
Dopo quasi un’ora di questo inferno, arriviamo a destinazione. Sono la sola donna e nel salone gli uomini sono già tutti seduti per terra con davanti una foglia di banana che serve da piatto. Vedo file di visi che si girano verso di me. Raggiungo uno spazio vuoto e mi accomodo a gambe incrociate. Un giovane con un pentolone pieno di riso bollito gira tra le file dei commensali e con un mestolo distribuisce le porzioni. Poi arrivano le verdure. Il ventilatore che gira alla massima velocità sopra alla mia testa mi preoccupa un po’. È vero che mi aiuta ad asciugare il sudore, ma il suo soffio freddo potrebbe avere delle conseguenze sulla mia salute. Purtroppo nessuno dei miei vicini parla inglese e la comunicazione è difficile.
Al Tourist Office
Nel pomeriggio, prendo un three wheeler per andare al Tourist Office. L’esperienza del mattino con il ricsciò mi è bastata, almeno per oggi. Da Nehru Avenue l’autista svolta in una stradina secondaria. Mi sembra strano che l’ufficio turistico si trovi in una zona così fuori mano. Come se non bastasse, l’autista svolta un’altra volta in una stradina stretta e fangosa, dove ci sono delle case piuttosto povere. Comincio a temere il peggio e a dubitare che il driver non mi stia affatto portando all’ufficio turistico. Mentre mi tengo pronta, nel caso, a saltare fuori dal ricsciò, vedo in fondo alla via, sulla sinistra, una casa un po’ più grande e ben tenuta delle altre, anche se non porta insegne di sorta. Ma sotto al portico intravedo dei poster di varie località dell’India e su un tavolo ci sono dei dépliant. Dico all’autista di aspettarmi. Con lui, durante il viaggio, c’è anche stato un momento divertente. Mentre percorrevamo la stradina in terra battuta gli avevo chiesto, incredula: “Ma possibile che abbiano messo l’ufficio turistico su una dirt road come questa?” Con questo nome inglese si intende una strada non asfaltata. Ma lui ha confuso la parola con dirty road, che vuol dire ‘strada sporca’. E con il simpatico accento che hanno gli indiani quando parlano inglese mi ha risposto: “Yes, it is not very clean!”.
7 luglio - Un' offerta di lavoro
Vado a trovare Trilockhchand Jain. L’autista del three wheeler però non trova la casa, chiede informazioni ma nessuno conosce questa persona. E dire che è stato Ministro della Sanità del Rajastan! Quando finalmente raggiungiamo la sua casa, vedo che ha un’architettura interessante, diversa da tutte quelle che ho visto finora. Dopo una breve conversazione, ci ripromettiamo di rivederci ad agosto, quando sarò di nuovo qui sulla via del ritorno verso Delhi.
Il driver mi propone di andare dai suoi parenti che inaugurano oggi un negozio di gioielli e pietre preziose. Parcheggia il mezzo e ci infiliamo a piedi in una serie di vicoli sempre più stretti, entriamo ed usciamo da antri scuri, saliamo una scala e siamo arrivati. L’interno del negozio è elegante e le pietre, per quel poco che me ne intendo, sono veramente belle. Non compro nulla e vedo che per questo i proprietari non sono molto contenti.
Dato che è ancora presto, vado a trovare un altro Servas, Munish, che è titolare e direttore di una scuola di lingue. Se fossi alla ricerca di un lavoro, qui lo avrei trovato. Infatti, è andato via da poco l’insegnante di italiano e Munish sta cercando un sostituto. Sono un po’ sorpresa dell’esistenza di un corso di italiano e gli chiedo chi siano gli studenti. Mi risponde che sono alcuni operatori economici, businessmen che fanno affari con l’Italia e alcuni studenti universitari di arte. Mi invita a pranzo per la domenica successiva, poi mi riaccompagna in hotel in Vespa ed è un guidatore abbastanza spericolato. La domenica conoscerò anche il padre, che sta per intraprendere un viaggio in Europa. Lo invito a venire da me, qualora includesse l’Italia nel suo viaggio. Quanto dispiacere e anche vergogna ho provato quando, tre mesi dopo, mi ha scritto dalla Germania (stava per recarsi in Inghilterra e in Danimarca) di aver chiesto il visto anche per l’Italia, insieme a quello per gli altri paesi, ma di non averlo ottenuto… La sera, tento di telefonare in Italia dall’hotel, ma il telefonista, dopo vari tentativi infruttuosi, mi dice che il codice 0039121 in India non esiste. Che pasticcio avrà fatto?
Vado a Galta, a qualche chilometro da Jaipur, un luogo bellissimo.
11 Luglio - Verso Ajmer
Visito quattro biglietterie prima di trovare un biglietto per l’autobus diretto ad Ajmer. Quando finalmente riesco a trovarlo, mi siedo ad aspettare l’autoveicolo, augurandomi che non sia troppo malandato. Mi era stato detto che i mezzi per quella destinazione partono dalla platform 1. Quindi, quando ne vedo arrivare uno a quella banchina, mi avvicino. Il controllore mi fa segno di caricare il bagaglio, mi dà lo scontrino e ritira i soldi. Però non sono convinta: com’è possibile che si imbarchi il bagaglio e si salga a prendere posto mezz’ora prima dell’orario di partenza? Chiedo ancora al controllore, mostrandogli nuovamente il biglietto. La mia diffidenza appare giustificata: questo è il pullman delle 8, che ha più di mezz’ora di ritardo. Io sono prenotata su quello delle 9, quindi riprendo il bagaglio, restituisco la contromarca e mi faccio ridare i soldi. Approfitto dell’attesa per andare al gabinetto. Lascio il bagaglio fuori della porta, incustodito, dato che il barista non mi ha permesso di lasciarlo dentro al suo locale. Anche se il chiasso non è cosa insolita in India, quello che c’è in questa bus station raggiunge livelli insopportabili. Gli altoparlanti sono collegati alla radio e diffondono musica e pubblicità ad un volume che spacca i timpani.
La partenza avviene quasi in orario. Per la prima ed ultima volta prendo posto dietro all’autista. Vedere i sorpassi e le uscite di strada all’ultimo momento nello spazio sterrato ai lati per evitare i camion in senso contrario, è una cosa da infarto. Meglio quindi essere nelle retrovie e sperare nella buona sorte.
12 Luglio - Ajmer
Telefono al coordinatore appena arrivata. La moglie mi dice che il marito mi avrebbe richiamata la sera. Lui è in tribunale, dove svolge il lavoro di avvocato difensore. In realtà mi ha richiamata solo tre giorni dopo, all’antivigilia della mia partenza da Ajmer. Mi dice di aver provato più volte, ma che il telefono non funzionava.
Mi invita ad andarlo a trovare il mattino successivo alle 10,30. Quando arrivo, lui sta consumando un thali. “Early lunch or late breakfast?” chiedo. Mi risponde che lui fa un primo pranzo alle 10,30, prima di andare in Corte, ed un secondo alle 2,30 p.m. quando torna a casa. Mi dice di tornare da lui a quell’ora. Io ho un impegno per il pomeriggio e glielo dico. “Make sure to be here by 2.30!” mi dice. Davanti a una simile intimazione non mi rimane che accettare, anche se il personaggio non mi piace, sia come aspetto che come comportamento. Ha i capelli nerissimi tinti, un completo giacca-pantaloni color blu elettrico e una cravatta rosso fuoco. Parla poco e io non so come riempire i lunghi intervalli di silenzio. Alle 2,15 dopo essermi ustionata la bocca per finire in fretta un tè troppo caldo, vado sotto il portico ad attendere il figlio dell’avvocato, che mi passerà a prendere in moto al ritorno da scuola. Sono le tre e dieci minuti quando finalmente arriva. Avrei avuto il tempo di bere il tè in tutta tranquillità. Suo padre, mi dice, ha fatto tardi in Corte. Non mi è chiaro quale sia il legame fra le due cose, ma va bene così. Incidentalmente, scopro che la loro casa si trova a meno di 500 metri dal mio hotel…
Mi sento a disagio in loro compagnia, non so bene perché. Ma la mia visita deve aver lasciato il segno perché, anni dopo, ho ricevuto un biglietto d’invito alle nozze del figlio… Ne ho inviato uno in risposta – spero di averlo scelto bene, sono sempre stata lodata per la bravura e l’originalità con cui sceglievo i cartoncini – in cui declinavo, dispiaciuta, l’invito…
Sulla lista c’è l’indirizzo di una coppia a cui avevo scritto da casa. Quando rientro in hotel, provo a telefonare. Mi risponde una donna che, con un tono estremamente irritato, mi dice di non aver mai sentito parlare del Servas. Le spiego di aver trovato il nome suo e del marito fra quelli degli appartenenti all’associazione con questo nome e che per quel motivo le avevo scritto e le stavo telefonando. Lei ribadisce di non saperne nulla e di non aver mai ricevuto lettere da parte mia, poi chiude bruscamente la comunicazione. Anche questo fa parte del Servas…
13 Luglio - Verso Udaipur
Gli indiani sono dei fedeli seguaci e praticanti del proverbio ‘Non fare oggi quello che puoi fare domani’. Anche se proprio qui al Tourist Bungalow dove alloggio c’è la più clamorosa eccezione a questa attitudine nella persona di un efficientissimo receptionist, di intelligenza pronta, egli rappresenta, appunto, un’eccezione. Infatti, se non si capita nel suo turno, bisogna ricorrere a sollecitazioni anche un po’ energiche per ottenere qualche risultato.
“Può pagare domattina” mi dice infatti, subito, un altro addetto a ricevere i clienti, di turno quella sera, a cui chiedo di saldare il conto. Gli faccio presente che l’indomani mattina ho l’autobus alle 4,30. Allora, con espressione rassegnata e con molta riluttanza, si china a cercare il mio nome sul registro degli ospiti. Scopre che non risulto da nessuna parte. Motivo? Ha preso il registro sbagliato, non quello su cui avevo firmato al momento del mio arrivo.
Alla biglietteria della stazione mi metto in coda nella fila delle donne. Ci sono infatti due file distinte per sesso, anche se lo sportello della biglietteria è uno solo. Dalla parte degli uomini non c’è nessuno, mentre da noi ci sono già molte signore in coda. Mi viene in mente un’affermazione attribuita, forse erroneamente, al presidente Andreotti: “A pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina”. Poiché i passeggeri degli autobus sono quasi tutti uomini, è molto probabile che molti abbiano dato l’incarico a una donna di venire a comprare il biglietto per loro. E, come se non bastasse, appena arriva l’impiegato che vende i biglietti, alcuni appartenenti al sesso forte si materializzano di colpo e si dirigono decisi allo sportello, ignorandoci completamente. Mi pare che l’abitudine inglese di fare la coda non abbia lasciato tracce in questi animi candidi. Quindi, il far fare alle donne una coda separata, ha anche il vantaggio di passar loro davanti impunemente.
Mentre acquisto il biglietto, chiedo all’impiegato da quale piattaforma parte il pullman per Udaipur. “Dalla piattaforma 6” mi dice. Una delle cose che avevo memorizzato prima di partire, insieme ad alcune frasi basilari, è stata la grafia dei numeri fino a 20. Quindi non ho problemi ad individuare la banchina corrispondente, dove c’è già un pullman. “Questo pullman va ad Udaipur?” chiedo, purtroppo in inglese, dato che questa frase non fa parte di quelle che ho appreso in hindi, mentre salgo. I passeggeri mi fanno enormi cenni di diniego che io prendo come una risposta negativa, per cui scendo. Quasi sicuramente però loro volevano dire che non capivano quello che io stavo dicendo. Purtroppo, nel frattempo, il pullman si è riempito e quando scopro che è proprio quello che devo prendere e che non c’è prenotazione dei posti, mi viene l'ansia.
15 luglio - Udaipur
Una giornata rilassata e rilassante. Al mattino vado al City Palace, con il gruppo di simpatici spagnoli che ho conosciuto a Delhi e che ho rincontrato qui all’hotel. Nel pomeriggio, loro partecipano a un tour organizzato nei dintorni di Udaipur, io invece vado nei giardini a passeggiare. Ma diversi gruppi di indiani mi importunano chiedendomi di fare delle foto con loro. Anche se rifiuto, loro mi riprendono lo stesso, con il flash, anche se splende il sole.
16 luglio - Al Tourist Bungalow
Stanno pulendo la stanza di fianco alla mia. Hanno portato fuori tutti i mobili e hanno arrotolato e portato fuori la moquette. Adesso stanno spruzzando ovunque ettolitri di D.D.T., per disinfettare l’ambiente. Chiedo ironicamente: “E’ morto qualcuno di qualche malattia contagiosa?” “No – mi dice il direttore – sono delle normali pulizie” Chiedo ancora: “Quanto spesso fate queste pulizie?” “Una volta al mese” aggiunge. Poi mi domanda se nella mia stanza sono comfortable. “C’è una puzza tremenda che sale dalla cucina” gli faccio notare. “Basta tenere le finestre chiuse!” mi risponde. Peccato che con 50° di temperatura non sia proprio l’ideale!
18 luglio - In Vespa sotto il monsone
Sono rimasta indietro con gli avvenimenti. La sera del 16 luglio avevo telefonato a Hukumraj Mehta. Quando l’ho richiamato dall’hotel, lui è subito venuto, in vespa, sotto un terribile temporale. E’ amicissimo del direttore, che ci invita a casa sua e ci offre del whisky. Io rifiuto, ma Hukumraj insiste perché io lo beva. Per convincermi, cita la storiella della donna che, pur di non rifiutare una bevanda offertale perché sarebbe apparsa maleducata, ha bevuto del veleno. A me sembra che il maleducato sia lui, oltre al fatto che questa è l’ennesima conferma del fatto che le donne non sono autorizzate ad avere una volontà propria. Insiste anche perché mi trasferisca immediatamente a casa sua, evitando di far guadagnare altri soldi all’hotel. Io sono diventata cauta nell’accettare l’ospitalità, vorrei vedere prima com’è la situazione abitativa. Il giorno dopo la vedo. I suoi due figli sposati vivono con lui e occupano tutte le stanze. L’unica stanza disponibile è quella in cui lui dorme. Quindi all’ospite non rimane che stendersi sul tappeto a pelo lungo, che un tempo forse era bianco e che adesso è color polvere. Anche se per fortuna non soffro di allergie – non oso pensare a quanti acari hanno fatto il nido in mezzo a quello sporco – ho qualche remora a scegliere questa soluzione. D’altra parte, l’alternativa è dormire nel letto con lui e non so che cosa sia peggio.
19 luglio
La mattina presto andiamo in Vespa all’appezzamento di terra che Hukumraj ha comprato per aiutare i tribes people a sostentarsi coltivando frutta e verdura per il proprio consumo. Sono tornata sull’argomento accomodation e lui mi ha risposto: “Eh sì, in effetti, da quando i miei figli sono venuti a vivere con me è diventato abbastanza problematico offrire ospitalità…”. E allora perché lo fa? Se io avessi accettato di trasferirmi da lui, come sarebbe andata a finire? È uno degli aspetti della mentalità indiana difficile da comprendere. Ho tuttavia accettato un invito a cena. Arrivati alla frutta, ho scoperto che c’è un solo modo accettabile di mangiare il mango, il loro. Ed io che, dopo averlo tagliato a metà e averne diviso la polpa in cubetti, ne ho portato alla bocca una delle due metà e staccato alcuni cubetti con i denti ho infranto il galateo delle good manners indiane e per questo sono stata ripresa. Non si fa una cosa del genere! Come ho fatto a non rendermi conto che la buona creanza è una priorità in questo paese? C’è stato un altro episodio, piuttosto sgradevole, sempre legato al cibo, riguardante il ghee, ovvero il burro ottenuto dal latte di mucca o di bufala, che è stato liquefatto e poi lasciato solidificare. È un po’ come il nostro burro chiarificato e in India si usa spesso come condimento, al posto dell’olio. Lui se ne era portate dietro in campagna alcune grosse palline, insieme a un po’ di pane. Ne ho assaggiata una, ma non mi piaceva, aveva un sapore rancido. Ma lui me ne ha rifilate altre due, che ho trangugiato a forza, sperando che non mi causassero qualche disturbo intestinale. Confesso che avrei fatto volentieri a meno di tanta generosità…
Mentre mangiamo, in piedi e al sole, osservo gli uomini e le donne che Hukumraj ha coinvolto nel suo progetto. Gli chiedo come è strutturata la comunità di lavoro, se i contadini ricevono dei soldi per la loro opera. “Oh no, questo non è possibile perché questi uomini li userebbero per andarsi a ubriacare.” Hanno diritto a prendere le cose che coltivano, è un modo per abituarli a sostentarsi da soli, in modo dignitoso. Dai loro movimenti fiacchi e svogliati, però, mi sembra di capire che, almeno per ora, non siano molto motivati ad applicarsi per ottenere un risultato. Incidentalmente, un paio di anni dopo il mio viaggio, ho ricevuto una richiesta da parte di Hukumraj di mandargli $100 per aiutare il progetto…
Il pomeriggio è fitto di incontri. Alle 15 vado a trovare Sanjai, proprietario di una piccola ditta di autotrasporti. C’è una grande immagine del Cristo appesa alla parete, accanto a quelle di Brahma e di Gandhi. Chiedo il perché della presenza dell’immagine di Cristo. Mi rispondono che, anche se è il leader di una religione diversa, loro lo rispettano ugualmente. Apprendo anche che, contrariamente a quanto crediamo noi cattolici, il Cristo non è morto sulla croce, ma ne è disceso e si è incamminato verso il Kashmir, dove ha avuto un meeting con dei monaci buddisti… Oltre a lui, nel salottino ci sono alcuni suoi amici, che gli chiedono di me. Lui spiega loro alcune cose del Servas, poi aggiunge che io, a differenza di altri viaggiatori, non sono sua ospite, vado lì solo per mangiare… Si sarà espresso male, ma confesso che fare la figura della scroccona quando mi sono recata da lui giusto per un tè e senza che quello ne fosse ovviamente il motivo, mi ha dato fastidio.
Alle 17 vado a trovare Ritu Deva, medico, che si sta specializzando in neurologia. Mi offre una cioccolata bollente che mi fa sudare parecchio, ma è la prima volta (e sarà anche l’unica) che mi capita di assaporare questa bevanda in India. Sua madre è una persona un po’ strana, attraversa la stanza parlando per conto suo, con la testa leggermente rovesciata all’indietro, senza guardarci né salutarci. Parliamo della situazione delle donne in India e Rita mi racconta le sue difficoltà all’Università e fuori. E’ difficile far accettare in società il fatto che lei, per ora, vuol pensare a terminare gli studi e ad iniziare la professione. Poi, eventualmente, penserà al matrimonio. Ora ha 29 anni, un’età considerata avanzata per una donna…
Mentre la seguo nella sua stanza, intravedo la madre in cucina, sdraiata sul letto, con la testa penzolante all’indietro fin quasi a terra…
20 luglio - Eklingij
Partenza in autobus per Eklingij e ‘non’ visita del tempio indù di Nathdwara. Lungo la strada vedo l’indicazione per la Perfect Public School, che, infatti, è poco oltre… Vista dall’esterno sembra ben lontana dalla perfezione… Abbiamo un incidente con un trattore, ma proseguiamo, con un’ammaccatura in più sulla carrozzeria del mezzo e senza danni per i passeggeri. Il tempio è chiuso, ma vale la pena vederlo anche solo da fuori.
21 luglio - Verso Ahmedabad
Sul sedile di fianco al mio è seduto un uomo dalla circonferenza enorme e la ciccia deborda anche dalla mia parte. Tuttavia è affabile e gentile, parla un ottimo inglese ed è un piacevole compagno di viaggio.. Protesta, in mia difesa, con un passeggero che, con lo spigolo della sua valigetta metallica 24 ore, colpisce i miei occhiali da sole mentre sono piegata in avanti nel corridoio dove lui sta passando per prendere una cosa dalla borsa ai miei piedi. Spesso non basta fare attenzione a come ci si muove, il pericolo arriva all’improvviso.
Un signore mi fa segno di andare a sedermi vicino a lui. Non so il perché, loro sono già in tre sul sedile, schiacciati uno di fianco all’altro. Parlando con lui scopro che è l’ispettore di controllo dei biglietti e mi vuole lasciare il suo posto che, secondo lui, è più comodo del mio attuale. Dopo un po’, infatti, si alza e comincia a controllare che tutti abbiano il contrassegno. Alcuni passeggeri ne sono sprovvisti e, come da noi, devono pagare una multa. Li vedo reagire piuttosto vigorosamente. Quando tocca a me esibire il biglietto, non lo trovo da nessuna parte. Controllo accuratamente tutto quello che ho nella borsa, nel portamonete, nel marsupio, nelle tasche…Niente. Poi mi viene in mente che, sopra alla tasca destra dei pantaloni, c’è un taschino, che non uso quasi mai. Il biglietto è lì, tutto appallottolato. Quando son salita sull’autobus e ho controllato la destinazione con l’autista lo tenevo in mano, poi, nell’ansia di non trovare neanche più un posto, devo averlo cacciato soprappensiero in quel taschino.
La multa da pagare sarebbe di 500 rupie! È un sollievo non doverla pagare.
Il paesaggio è interessante. Piccoli villaggi, natura verdeggiante, molte piante grasse di grandi dimensioni… L’autista è insolitamente prudente. Ci fermiamo, dopo tre ore di viaggio, a Bilwhara, per andare a bere. Vediamo un uomo che sta da anni su di una gamba sola…
Entro nel piccolo bar della stazione. Appena varcata la soglia, mi accoglie un boato. Il bar è pieno di uomini che mi accerchiano sghignazzando e facendo commenti a voce altissima. Sono veramente spaventata. Non fosse che ho un bisogno disperato di comprare dell’acqua, sarei già tornata sul pullman. Mi stanno talmente addosso che non riesco a muovermi e tantomeno a uscire.
Quando torno sul pullman mi accorgo che c’è stato un ricambio quasi totale dei passeggeri: ora ci sono molti tribes people con coloratissimi vestiti di fogge particolari. Alcuni di loro ricordano fisicamente i nostri nomadi e sono diversissimi dalla maggior parte degli indiani. Ho contato solo sei camion fracassati in incidenti stradali, un vero record.
Ad Ahmedabad chiedo allo scooterista di portarmi al Ritz Hotel. Lui mi porta invece al Rivera, dove mi dicono che il Ritz è chiuso da oltre un anno. Dopo aver chiesto il prezzo, decido di fermarmi. La stanza è molto confortevole, la doccia è splendida. Telefono a S.Parikh, il quale mi viene a prendere alle 15,30 e mi porta, in un sidecar piccolissimo e incredibilmente basso – sono praticamente seduta raso terra – a incontrare un tourist officer di Udaipur, che è stato trasferito qui. Coerente con la sua professione, mi ricopre di volantini del Rajastan e mi dà delle bellissime cartoline, le più belle che abbia visto in India.
22 luglio - Ahmedabad
Mi reco al Gandhi Ashram, che si trova a qualche chilometro dal centro, sulle rive del fiume Sabarmati. In questo luogo, che ha rappresentato uno dei momenti più significativi del mio viaggio, il Mahatma ha vissuto per ben 12 anni, insieme alla moglie Kasturba. A quel tempo l’edificio, che si chiamava Satyagraha, era molto più piccolo e modesto di oggi. Uno dei volontari che vi lavorano mi ha spiegato che Gandhi aveva fondato lì una scuola che si concentrava sul lavoro manuale, sull’agricoltura e sull’alfabetizzazione.
Ma la cosa storicamente più rilevante era che ‘il fachiro nudo’, come lo definiva Churchill, era partito proprio da qui per la famosa ‘marcia del sale’, in protesta alla legge britannica che aumentava le tasse su questo prodotto. La disobbedienza civile di massa che ne è seguita ha dato origine al percorso che ha poi portato all’indipendenza del paese, il 15 agosto 1947.
Fra le molte cose importanti ospitate nel museo c’è l’arcolaio per tessere il khadi, mentre nell’archivio sono conservati molti documenti, lettere, manoscritti e fotografie di Mohandas Karamchand Gandhi, che vengono messi a disposizione di chi intende approfondire lo studio del pensiero e della filosofia di questo grande uomo. Alla fine della visita, mi siedo all’ombra di uno dei tanti alberi del giardino per rivivere nell’immaginazione gli anni in cui qui è avvenuto qualcosa di così importante da cambiare il corso della storia e il destino di un grande paese come l’India.Gandhi Ashram
The Salt March
23 24 luglio Vadodara
La distanza fra Ahmedabad e Vadodara non è molta, si copre in un paio d’ore, perciò decido di partire nel tardo pomeriggio, quando il sole è un po’ meno feroce. Purtroppo ci si mettono di mezzo la pioggia torrenziale e il vento, che fanno ritardare di ore la partenza. Anche il tragitto richiede molto più tempo del previsto perché in certi punti la strada è allagata. Arrivo a Baroda – come viene chiamata in inglese – alle 3 dopo mezzanotte, quindi ovviamente non se ne parla di andare a disturbare la mia ospite Servas. Perciò, anche se è una cosa rischiosa per via delle complicità e dei tornaconti che ci sono fra le due categorie, chiedo all’autista del three wheeler di portarmi in un hotel che sia pulito e non troppo caro. Lui parte deciso in direzione di quel che lui ha definito un good hotel e a me non rimane che sperare per il meglio.
Si tratta in effetti di un buon hotel, anche se è ben lungi dall’essere economico. Chiedo comunque una stanza, non mi va di uscire a cercarne un altro, prendendo altra pioggia, con il risultato magari di trovarmi in una situazione peggiore. Si sono fatte le 4 e sono talmente stanca e fradicia da aver voglia solo di liberarmi dei vestiti bagnati e di buttarmi sul letto. Non sono passate neanche due ore che sento bussare alla porta. Vado ad aprire e vedo alcune donne che penso siano le cameriere. Non so che cosa vogliono, gli dico che non ho bisogno di nulla, sono entrata da poco nella stanza e vorrei cercare di dormire un po’. Per sicurezza, telefono alla reception, spiego la situazione e l’impiegata mi dice che ci pensa lei a chiarire le cose con le addette alle pulizie. Mi rimetto a letto, ma dopo neanche 20 minuti, qualcuno bussa di nuovo alla porta. Sono le stesse donne di prima. Sono talmente innervosita che decido di andarmene, dopo aver fatto una doccia. Alla reception c’è un uomo, non sto a ripetergli che cosa è successo. Non ho mai speso così tanto in un hotel per un soggiorno così breve. Vado a far colazione, poi passeggio un po’ per la città, per far venire un’ora accettabile e presentarmi dalla figlia di Harivallabh.
Arrivo a casa sua – l’indicazione sulla lista dice: ‘behind the blood donor centre’ - poco dopo le 8. Lei sembra felice di vedermi. Non vedendomi arrivare la sera prima temeva mi fosse successo qualcosa durante il viaggio. Mi fa vedere il letto che aveva preparato per me – una turca nel corridoio d’ingresso, sotto a grandi vetrate – e mi fa accomodare in cucina, dove il marito sta facendo colazione. Arriva anche Dinesh, l’autista della jeep che mi porterà all’ashram. Il tempo si mantiene asciutto, in cielo non ci sono nuvoloni e io non vedo l’ora di partire per approfittare di quella pausa fra un temporale e l’altro. Ma… illusione! La padrona di casa dice che ci deve preparare la colazione. Nooooooo! Le dico che io l’ho già fatta e che per Dinesh posso comprare qualcosa che gli piaccia in un negozio o a una bancarella per strada. Non c’è niente da fare, la gentile signora è irremovibile. Il mio atteggiamento esterno si mantiene sorridente e amabile come sempre, ma dentro di me sono divorata dal nervoso.
Il riso messo a bollire con dei legumi cuoce per più di mezz’ora. Il risultato è un macigno colloso nel quale si fa fatica a far entrare il cucchiaio. Devo bere a ogni boccone che metto in bocca per mandarlo giù. Finalmente riesco a finire il piatto , usciamo e ci avviamo verso la jeep.
La महिला esce con noi, mi dice che deve andare al mercato a comprare ‘some crookrì’. Sul momento non so che cosa voglia dire, poi, ripensandoci, mi viene in mente che probabilmente intendeva ‘crockery’, ovvero stoviglie.
Appena dopo la partenza, il cielo si oscura e si mette a piovere forte.Prevedo un viaggio difficile. La jeep è un vecchio catorcio che minaccia di rompersi ad ogni istante. Infatti, Il primo pezzo si stacca di lì a poco. Si tratta della spazzola di gomma del tergicristallo, una delle cose più indispensabili. L’autista si ferma e torna indietro a cercarla. Una volta recuperata, ne infila il sottile supporto di ferro nell’asta che garantisce il movimento a va e vieni. Mi era impossibile credere che, appena il movimento fosse di nuovo azionato, quell’aggeggio sarebbe rimasto al suo posto. Infatti, dopo poche decine di metri, esso viene lanciato con forza nell’erba alta del prato lungo la via. Anche se la situazione è drammatica – il muro d’acqua che scende sul parabrezza impedisce qualsiasi visibilità – non riesco a trattenermi dal ridere. La spazzola ha disegnato una parabola ad arco prima di atterrare, come se fosse stata catapultata. Scendo ad aiutare l’autista nella ricerca. Sono proprio io ad individuarla e lui sembra seccato di questo. Ho le scarpe piene di fango e i pantaloni zuppi d’acqua. Dinesh incastra con maggiore forza il pezzo di gomma sulla base e ripartiamo. Il fondo stradale, già abitualmente dissestato per la carenza di manutenzione, in questa stagione lo è ancora di più per le piogge monsoniche.
Per questo, quando si arriva a destinazione, si ha l’impressione che la testa non sia più attaccata al resto del corpo. Oltrepassiamo villaggi rurali, in uno dei quali è in corso l’allestimento di luci e decorazioni per un festival. Io divido la mia attenzione fra il paesaggio esterno ricco di bellissime piante di acacia e il casco di banane marce che l’autista ha sistemato fra i nostri due sedili, e che, a causa dei sobbalzi, ricade continuamente sulle mie gambe, macchiando i pantaloni con la polpa scura e appiccicosa.
Per questo, quando si arriva a destinazione, si ha l’impressione che la testa non sia più attaccata al resto del corpo. Oltrepassiamo villaggi rurali, in uno dei quali è in corso l’allestimento di luci e decorazioni per un festival. Io divido la mia attenzione fra il paesaggio esterno ricco di bellissime piante di acacia e il casco di banane marce che l’autista ha sistemato fra i nostri due sedili, e che, a causa dei sobbalzi, ricade continuamente sulle mie gambe, macchiando i pantaloni con la polpa scura e appiccicosa.
Finalmente arriviamo all’ashram. Non ho neanche il tempo di guardarmi intorno che vengo accompagnata in un salone strapieno di uomini e donne seduti per terra. Al fondo, su una pedana, c’è un tavolo dietro al quale è seduto Harivallabh Parikh, il fondatore di questa comunità. Lo riconosco per averne visto la foto in precedenza. Dopo un scambio di saluti, mi presenta all’uditorio come appartenente a Servas Italy. Mi spiega quel che sta avvenendo e mi coinvolge immediatamente nella cerimonia. Sul tavolo ci sono molte buste, che contengono dei soldi da distribuire ai partecipanti per aiutarli a portare avanti i loro progetti di lavoro in campo agricolo, tessile e di ceramica. Mi suggerisce che sia io a chiamare al tavolo le persone, dopo che lui mi ha sussurrato i loro nomi all’orecchio. La cosa funziona, anche se ogni tanto vedo dei sorrisetti perché evidentemente la mia pronuncia non è corretta. Ma vedo anche che il fatto di essere nominati da una viaggiatrice straniera fa loro piacere.
Dopo un paio d’ore di assegnazioni di rupie, vengo accompagnata nella mia stanza. Lascio la borsa da viaggio e scendo subito, perché Harivallabh ha chiesto alle donne addette alla cucina di prepararmi un tè e qualche samosas, che fanno da pranzo. Lui mi raggiunge mentre sto sorseggiando un meraviglioso masala chai. Si informa sul Servas di Delhi da cui mi aveva consigliato di non andare. Io gli faccio molte domande sui suoi interventi, negli anni, in favore dei popoli tribali dell’India. Quando andiamo nel suo ufficio, vedo alla parete una grande foto di Indira Gandhi e lui mi dice che è stata in visita qui. Mi dà un foglio con l’elenco delle cose realizzate e mi chiede se desidero andare con lui a trovare due donne, madre e figlia, che vivono nel villaggio vicino e che hanno chiesto il suo aiuto. Il marito violento della figlia era stato allontanato con un provvedimento giudiziario, ma lui, per vendicarsi, è tornato nottetempo e le ha aggredite. Confesso che non ero preparata a quello che ho visto. L’uomo aveva infierito sulla madre a colpi di accetta ed era un miracolo che fosse ancora viva. Aveva dei tagli profondi su tutto il corpo, a me ha mostrato quelli sulle gambe, che erano quasi mozzate all’altezza delle ginocchia, tanto che non poteva più camminare. La figlia aveva il viso sfigurato. Le immagini delle ferite profonde inflitte loro mi tornano alla mente ancora oggi.
25 luglio Anand Niketan
Dopo colazione, Harivallabh mi porta a vedere la costruzione di una diga insieme a una giornalista inglese, che è venuta ad intervistarlo. L’opera aveva significato la distruzione di alcuni villaggi, finiti allagati, e Harivallabh ha spiegato alla giornalista di essersi assicurato che tutti gli abitanti venissero ricollocati in nuove case. Sui grandi pannelli ai lati del cantiere c’era, fra le altre, la foto di Rajiv Gandhi e della moglie Sonia, che si erano recati lì a visitare i lavori. Quando ho detto alla giornalista che Sonia proveniva da una cittadina vicino a quella dove abito io e che conoscevo suo padre, è rimasta sorpresa. Pensava, giudicando dalla foto, che fosse indiana.
Sulla via del ritorno, ci siamo fermati in un grande deposito di materiale edile, dove Harivallabh doveva fare degli acquisti. Come già era successo nei giorni precedenti, anche qui sono rimasta colpita dall’atteggiamento di grande rispetto e dall’inchino in segno di riverenza verso Harivallabh.
Lui si sottraeva, ma molti si curvavano a baciargli la mano. Doveva averne fatto di bene quest’uomo, appartenente a una casta privilegiata, che aveva rinunciato a tutto per dedicare la sua vita al miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi, dei più deboli della società. Rientrati all’ashram, facciamo appena in tempo a mangiare un boccone veloce che dobbiamo prepararci per un piccolo spettacolo nel quale ognuno è libero di intrattenere gli spettatori, che sono numerosi e che, a loro volta, si esibiscono sul palco, con quello che preferisce e che sa fare meglio.
Lui si sottraeva, ma molti si curvavano a baciargli la mano. Doveva averne fatto di bene quest’uomo, appartenente a una casta privilegiata, che aveva rinunciato a tutto per dedicare la sua vita al miglioramento delle condizioni di vita degli ultimi, dei più deboli della società. Rientrati all’ashram, facciamo appena in tempo a mangiare un boccone veloce che dobbiamo prepararci per un piccolo spettacolo nel quale ognuno è libero di intrattenere gli spettatori, che sono numerosi e che, a loro volta, si esibiscono sul palco, con quello che preferisce e che sa fare meglio.
Può essere una canzone con accompagnamento musicale, una poesia da recitare o altro. Io ho scelto di cantare due strofe della canzoncina ‘C’era una volta un piccolo vascello’, da me tradotta velocemente in inglese, affinchè gli spettatori ne potessero seguire meglio il contenuto. Il ritornello con i numeri, invece, lo cantavo in hindi, dopo aver spiegato all’uditorio che dovevano cantare con me. Imparare a memoria i numeri, almeno fino a 30, e le frasi più utili nella lingua del paese, ha sempre fatto parte della mia preparazione di un viaggio. La mia esibizione è stata un grande successo.
26 luglio
In questo giorno si scolgeva il tribunale. Un giorno la settimana, infatti, Harivallabh ricopriva il ruolo di giudice. E’ stato davvero interessante vedere con quale bravura ed autorevolezza affrontava e risolveva diversi tipi di controversie. Le sue decisioni erano vincolanti e molto rispettate e in questo modo i contrasti non arrivavano a sfociare in episodi di violenza. Sin dal mattino presto arrivavano i ‘contendenti’ accompagnati da parenti e amici, si sedevano per terra e il processo aveva inizio.
Harivallabh, nel suo ruolo di arbitro, quando qualcuno si intestardiva a voler fare di testa sua urlava tanto da farsi sentire anche dai villaggi vicini. Alla fine, però, in questa people’s court si giungeva ad una decisione considerata equa ed accettata da ambo le parti.
Nel pomeriggio, mentre eravamo in campagna a lavorare – io avevo scelto di strappare le erbacce nell’orto – ci hanno raggiunti tre francesi, un uomo e due donne, venuti a fare un po’ di volontariato. Lui si è subito fatto conoscere come un grande maleducato. Aveva visto la mia borraccia appesa al ramo di un melo – me la portavo sempre dietro perché lavorare chini a terra sotto un sole cocente richiede un reintegro dei liquidi – l’ha presa, senza che io me ne accorgessi e ne ha tracannato quasi tutto il contenuto. Soltanto dopo, quando mi si è avvicinato per vedere che cosa stessi facendo, mi ha chiesto se fosse mia la borraccia aggiungendo che se l’era scolata perché aveva molta sete. Ci sono dei comportamenti che rivelano subito l’indole di una persona e il suo rientrava fra questi. Perché non aveva estinto la sua sete nell’ashram, dove c’era abbondanza di acqua potabile, e si era invece dissetato dalla mia piccola borraccia, senza neanche chiedermi il permesso? Nei giorni successivi il monsieur ha confermato in più occasioni questo suo atteggiamento da padrone. Poiché non parlava una parola di inglese, disponeva di me a suo piacimento per il lavoro di interprete. Anche il mio dizionario inglese-hindi era da considerare a sua disposizione, oltre alla mia consulenza personale, dato che era mia abitudine imparare a memoria i numeri e le frasi più indispensabili della lingua locale prima di ogni viaggio.
Gli ospiti dell’ashram mangiavano a un tavolinetto situato in una stanza attigua alla cucina. Appena arrivato il mec, sempre senza chiedere il parere di nessuno, ha spostato il nostro desco nella cucina, proprio di fianco ai fornelli, perché lui voleva poter ‘conversare’ con le cuoche per farle sentire alla pari e non al nostro servizio. Purtroppo le bombole avevano una grossa perdita e da esse fuoriusciva un forte odore di gas, che mi faceva venire voglia di rimettere.
L’ecolo, così contrario alle gerarchie fra i popoli, ma così pronto a stabilirne una nei miei confronti, negato per qualsiasi lingua che non fosse la sua, usava le espressioni in hindi che gli avevo insegnato assolutamente a sproposito. Se la vista del sembiante delle cuoche nel sentire le castronerie che uscivano dalla sua bocca non fosse stata preoccupante, la situazione così paradossale avrebbe anche potuto essere divertente. Ma, anche se lo mascheravano bene, era chiaro che quelle povere donne erano seccate per il tempo che stavano perdendo. Era altrettanto chiaro che, se anziché tentare di infrangere le barriere linguistiche e culturali senza averne i mezzi, il mec avesse loro offerto, ad esempio, di aiutarle a pulire le verdure o lavare i piatti, avrebbe fatto una cosa migliore.
27 luglio Ammaccati, senza più la nostra forma originaria, avanziamo…
Nella lingua della mia regione, il Piemonte, l’espressione ‘andé a baron’ corrisponde a ‘sfasciarsi’. Ed è proprio quello che mi è successo con la grosse dame française. Il suo sedere enorme portava via più di metà del sedile della jeep di Harivallabh e la sua amica ed io eravamo costrette a viaggiare schiacciate l’una contro l’altra nell’altra metà. Una vera tortura. Il mec invece stava seduto dietro al nostro sedile, su un grosso cuscino messo sul pavimento del mezzo. Tutto sommato, stava più comodo di noi. Di sicuro, il nostro viaggio è stato avventuroso e faticoso. Sulle strade sterrate, quando la jeep finiva in una buca, noi venivamo proiettate in alto e sbattevamo la testa contro il tetto di metallo. Poi, la cicciona mi atterrava addosso. Non so quale delle due cose fosse peggio.
Uno dei luoghi da noi visitati era un enorme magazzino di batik. dove siamo stati accolti con grande simpatia e familiarità. Siamo stati coinvolti nella conversazione con domande sulla nostra provenienza. Io, come sempre, avevo l’incombenza di tradurre. Ci è stato cortesemente offerto un pasto leggero a base di deliziosi pakoras, accompagnati da un fresco frullato di mango. Mi sono sentita in dovere, per ricambiare la generosa ospitalità, di acquistare alcuni batik, anche se i colori e le fantasie non mi piacevano molto. Nessun altro ha avuto lo stesso pensiero gentile. Anche qui mi ha colpito un fatto, in fondo banale e spiegabile. Gli uomini di corporatura robusta e massiccia, ben nutriti, se ne stavano allungati su comodi divani, spesso davanti alla cassa o alla calcolatrice, in locali con aria condizionata. I poveretti smilzi e mingherlini trasportavano sulle spalle delle quantità di merci tali da atterrare un dromedario.
Per la serie le sorprese non finiscono mai, mentre la sera rientravamo all’ashram, è successa una cosa curiosa. Era ormai notte e i miei compagni di viaggio dormivano. A un certo punto, mentre cercavo con il braccio e la spalla di impedire alla potelée francese di cadermi addosso nelle curve, siamo improvvisamente piombati nel buio più totale. L’oscurità è durata diversi secondi. Sul momento non ne capivo il motivo, ci trovavamo su una jeep che procedeva a velocità abbastanza sostenuta su una strada dissestata e piena di curve, quindi perché spegnere i fari? Poi mi sono resa conto che questo succedeva ogni volta che l’autista azionava la leva per passare dalle luci anabbaglianti a quelle abbaglianti. Chiunque sia stato in India sa che, dopo un po’ che si è nel paese, non ci si stupisce più di nulla e quella era semplicemente un’abitudine che non avevo ancora avuto occasione di incontrare.
Le mie prime due notti all’ashram sono state piuttosto movimentate. Nel corso della prima mi sono svegliata di soprassalto percependo qualcosa di umido e freddo a contatto del viso e sentendo un respiro rantolante che metteva paura. Ho fatto un balzo sul letto e ho acceso la luce. Accanto al letto c’era la grossa cagna dell’ashram, ormai piuttosto vecchia, che evidentemente si era introdotta nella mia stanza prima del mio rientro e si era sdraiata sotto al letto a dormire… Ho faticato un po’ a farla uscire in corridoio, evidentemente si trovava bene nel mio piccolo alloggio, ma spingendola con forza ce l’ho fatta. Tuttavia, l’imprevisto mi aveva lasciata turbata e confusa e ho faticato a riaddormentarmi in quel caldo afoso.
La notte seguente, anziché azionare il ventilatore che girava a una velocità folle proprio sopra la mia testa e non mi faceva bene, ho deciso di lasciare la finestra spalancata. Dal fiume sottostante, costeggiato da grandi alberi frondosi, veniva infatti una certa frescura. Purtroppo, però, insieme al refrigerio, venivano anche i topi. Ed è stato così che mi sono ritrovata con un piccolo esercito di topolini scorrazzanti in piena notte sul mio corpo. I più intraprendenti si infilavano fra i capelli e mi correvano sul collo e sul viso. Inutile dire che il mio risveglio è stato ancora più spiacevole e brusco del precedente. Con la scopa ho cacciato gli intrusi, che si nascondevano negli angoli e sotto il letto. A malincuore, ho chiuso la finestra e mi sono affidata al ventilatore per non morire di caldo.
La mattina dopo, prima di recarmi al lavoro di buon’ora, ho assistito a un altro spettacolo insolito. Ci avevano detto che sarebbe arrivata una viaggiatrice norvegese ed eravamo tutti in impaziente attesa di conoscerla. Ad un certo punto, mentre ero china a raccogliere erbacce, ho sentito un boato di risate. Mi sono raddrizzata e ho guardato nella direzione dello scroscio di ilarità. In mezzo al fiume, avanzava un gruppetto di uomini che reggeva sulle braccia una Vespa su cui sedeva la viaggiatrice scandinava. Motivo? Astrid – questo era il suo nome - era arrivata sì, ma sull’altra sponda del corso d’acqua! Ma il talento estroso degli indiani ha subito suggerito una soluzione efficace. Hanno fatto sedere la signora sulla Vespa di un loro amico – portarla in braccio non sarebbe stato conveniente – poi l’hanni issata in alto affinchè non si bagnasse e l’hanno trasportata sulla nostra sponda, come se stessero trasportando una divinità in processione. Non è stato semplice perché la corrente era forte, malgrado loro utilizzassero un guado. Alla fine, tutto è andato per il meglio e la giunonica Astrid si è aggregata al nostro gruppo.
Dopo pranzo andavano tutti a fare la pennichella, io preferivo fare una passeggiata nei dintorni dell’ashram, anche se il sole era implacabile. Mentre attraversavo uno dei villaggio vicini un gruppo di ragazzini mi si è avvicinato con atteggiamento aggressivo e alcuni di loro hanno cominciato a tirarmi delle pietre, con violenza. Ho cercato di proteggermi il viso e mi sono allontanata in fretta. Questa è una delle situazioni in cui a volte si incorre nel corso dei viaggi. Io pensavo che gli abitanti di quei villaggi fossero abituati agli stranieri in visita all’ashram e io non avevo nulla di irrispettoso verso la cultura locale, né vestiti indecenti né atteggiamenti sgarbati o maleducati. Chissà che cosa ha scatenato la loro reazione. Ho parlato con alcune donne in viaggio da sole che si sono trovate in difficoltà in certe parti dell’India. Per me c’è stato solo un altro episodio, oltre a questo, a Jaipur, dove un ragazzo aveva afferrato il mio piccolo ombrello con cui mi proteggevo dal sole – l’unica volta in cui l’avevo usato - mentre ero su un ricsciò, facendomi quasi cadere sotto le ruote.
Non l’ho raccontato ad Harivallabh, sicuramente lui avrebbe fatto qualcosa, ma non volevo dargli un’altra preoccupazione, ne aveva già tante!
FRA TRADIZIONI, POVERTA' E DISEGUAGLIANZE